Once upon a time.

When you get older, plainer, saner
Will you remember all the danger
We came from?
Burning like embers, falling, tender
Longing for the days of no surrender
Years ago

You & me. No. Non sto parlando della tariffa di una nota compagnia di telefonia. Anche se, effettivamente, ha fatto da comunicazione per un lungo periodo.

Un sogno. Non ho mai avuto grossa fortuna con i sogni. Alle elementari sognavo di fare la fumettista, alle medie sognava di andare in america e di condurre studi sui nativi americani, alle superiori sognavo di fare l’archeologa. L’ultimo anno decisi che avrei fatto l’accademia delle belle arti. In fondo creare è sempre stata una delle mie più grandi passioni, ma mai avrei pensato che potesse diventare un mestiere così mi limitavo a nasconderlo in fondo a sogni disparati. Come spesso accade ai sogni, il mio è restato tale. Ma questa è un’altra storia.

Questa è la storia di un sogno, cercato, bramato, curato e cresciuto per vent’anni. Non è la mia storia ma è un capitolo di essa. Inizia come nelle fiabe.

C’era una volta una ragazza, coi capelli cortissimi, un sorriso sbilenco e tanta voglia di fare. Lei amava gli animali e loro amavano lei. Istinto animale, lo chiamano alcuni. La sua mamma, per prenderla in giro, le diceva “tra bestioline ci si intende” e le sorrideva. Ed era quello che accadeva, quando la ragazza varcava la soglia del canile in cui faceva volontariato e si rapportava con i cani. Tra loro bastava uno sguardo. Un legame indissolubile tra di loro. Negli anni successivi, dal canile passò alla toelettatura, passando per l’addetta  vendita in diversi pet shop. Fu talmente naturale che lei non si rese conto. Ma la magia, quella vera, si manifestò quando lei iniziò a prendersi cura dei cani. Anche se lei ancora non lo sapeva. Perché quella ragazza, che nel frattempo divenne una donna, con i capelli cortissimi ma brizzolati e con leggerissime rughe intorno al verde gentile dei suoi occhi, quando tre anni fa aprì il SUO negozio, l’ultima cosa a cui pensava era di fare la toelettatrice.

Voi mi direte : e cosa c’entra tutto questo? Abbiate pazienza e seguite il flusso del sogno.

Come ogni sogno che si rispetti, la fanciulla si avventurò alla ricerca del locale perfetto. Nella ricerca dei prodotti perfetti da inserirvi dentro. Nella ricerca della grafica perfetta che le creasse il logo perfetto per il suo negozio perfetto. Ma la guerriera dai capelli brizzolati non poteva sapere che quella sarebbe stata una delle più grandi ricerche che avrebbe dovuto affrontare. E una delle battaglie più dolorose. La grafica era una occhialuta e introversa “amica-da-parco”, conosciuta un’anno prima mentre era a passeggio con il suo cane. Ma anche questa è un’altra storia, non divaghiamo. Non era come talune principesse di fiabe antiche, non indossava pizzi e macramè ma felpe nere con teschi luccicanti. Non aveva vaporosi ricci ma un ciuffo selvaggio. Occhiali rossi, fossette che decoravano il suo sorriso e le ardeva dentro un fuoco che per troppo tempo era rimasto soffocato sotto una brace di rimpianti, rimorsi e vane speranze. Così iniziò la ricerca della guerriera.  Con una richiesta. Che celava un ‘emozione profonda e a lei sconosciuta. Che andava rincorsa, che spesso fuggiva e si nascondeva dentro gli scheletri del suo armadio. che a volte sfiorava con la punta delle mani ma con un guizzo scappava via. E più lei cercava e rimestava dentro di se e più a fondo andava. Sin quando la ragazza occhialuta presentò il suo lavoro.

Wishin’ I could see the machinations
Understand the toil of expectations
In your mind. 

Blue monday

Il lunedì è un giorno terribile. Pieno di contraddizioni e di rotture di maroni. Nonostante le innumerevoli leggende che si narrano sul blue monday, per me, è la certezza di un nuovo inizio. Qualunque esso sia. Scandisce l’andamento della settimana e del mio umore. Che in genere ha un bel incarnato ceruleo. Come le mie occhiaie. Le frasi motivazionali funzionano poco. Tollero a malapena “lavati la faccia e..sorridi!”. Sorridi a cosa? È lunedì. Ma, nella storia di questo giorno nefasto, alcune volte ti svegli e sai che sarà una giornata meravigliosa. E quella giornata entra nella storia dei “best day”.

Questa non è quella storia.

Cinque sveglie, posticipate l’una dall’altra ogni cinque minuti, impostate sul cellulare posizionato in fondo alla stanza. Tra lui e me un percorso fatto ad ostacoli per raggiungerlo. O mi sveglio, o muoio provandoci. Il mio istinto di sopravvivenza è molto forte. Maya, ostacolo numero due, sa bene di che parlo. Si infila velocemente sotto il letto prima di finire spazzata via. Lo zaino di Gio prova a farmi incespicare,  soffoco un porc mentre lei russa nel mio meraviglioso lettone a due piazze, fresco di bucato; raggiungo il telefonino stacco la terza sveglia sbatto la testa sulla lampada (che ci fa orientata sulla scrivania invece che sul tavolino?) completo l’imprecazione e sbatto il ginocchio sulla sedia.

Benvenuto lunedì.

Respira e massaggia la testa.  Raggiungo la porta, giro la maniglia ed eccolo li, il terzo ostacolo in tutta la sua malvagità  e la sua oscurità. Una pallottola nera schizza sulle mie caviglie, sento solo “purrrrrr” mentre pasticcio con la moka. Caffè, vi prego. Sento Kita che inizia ad uggiolare. Ķkķkkkkiiiiiittttttaaaaaahhhhhhhhh, urlo nella mia testa; dalla mia bocca sputo un suono incomprensibile di cervo muschiato  in primavera. Lei si cheta, la caffetteria sbuffa,  finalmente. Fate mi fa cascare la tazzina dalle mani, dopo un triplo salto acrobatico sul runner della cucina. Schivo il caffè, maledicendo il Fato e i suoi messaggeri demoniaci in corpo di gatto. Butto giù i residui di caffè e schizzo a vestirmi talmente veloce che Clark Kent sta ancora cercando di capire perché ha abbinato lo slippino rosso con la calzamaglia azzurra. Lo specchio mi restituisce l’immagine di Kung Fu panda. Non c’è verso di stendere l’eyeliner. I complottisti penserebbero a un piano malvagio delle aziende cosmetiche capeggiato da Clio Make up. Migliaia di soldi spesi in prodotti concepiti per l’asimmetria. Borsa, occhiali, chiavi, porta. A sbarrare la mia strada il Fato. Fa le fusa. Mi guarda. NON.DEVO.FERMARMI.

FATE

Salgo in macchina, mi separano dal ritardo 60 secondi. Raggiungo scuola, i miei colleghi sono molto bravi nel loro lavoro ma fanno schifo a parcheggiare. Soffoco l’ennesimo porc . Ho smesso di contarli. Suono il campanello, non arriva nessuno. Un bimbo delle elementari, impietosito, apre la porta e mi fa entrare. Corro verso l’ascensore,  fuori servizio. Arranco sui due piani di scale, sento nella bocca sapore di sangue, sto per avere un infarto. Se non muoio qui e ora giuro che da lunedì mi metto a dieta. Arrivo in classe, la collega è più in ritardo di me.

Evvai, prof. Cicciona di sostegno 1 – insegnante di matematica 0.

Saluto i ragazz*, faccio l’appello,  mi sorridono. Forse questo lunedì non fa poi così schifo. Non giudichiamo male un lunedì da un risveglio burrascoso. Ne ho avuti tanti così. Arriva la collega, esco dalla classe con due alunne e andiamo in un’aula vuota. Apriamo il libro, parliamo di frazioni.  Inizio a interrogare.  Dal corridoio una mandria imbufalita si avvicina,  sento prima le risate poi gli stridii delle converse che derapano sulle piastrelle. Ci spostiamo nell’aula dell’aiutino, arriva la collega con un’altra alunna, ci spostiamo di nuovo e cerchiamo i primi dieci centimetri di spazio privi di disturbo. Che la ricerca del Santo Graal era meno difficile. Le fanciulle non hanno fatto i compiti, è lunedì anche per loro. Cerco di contenere i porc, finisco le mie ore, le affido alla mia collega e vado da un’altra alunna. Lei è la mia gioia e il mio dolore. Da quando lavoriamo insieme, la mia autostima è schizzata alla stelle. “Sei bella”, e mi sorride. Le mie occhiaie quasi spariscono. Poi lancia un urlo e la magia finisce. O forse comincia. Suona la campana della quinta ora, mi fiondo giù per la scale e mi precipito a casa.  Fate mi ignora, Maya pure. Kita uggiola dalla camera d letto. Entro in cucina, Gio sta preparando il pranzo. Le sfioro la schiena, mi sorride. Quando ho smesso di specchiarmi nei suoi occhi? Le nostre labbra si sfiorano appena. Un gesto quasi meccanico. Pranzo velocemente e mi spalmo sul divano. Richard torna a casa da Adele, Alex lascia Ava, George bacia Lexy e finalmente Meredith si affida a Derek. Sarà la volta buona? Non finisco di vedere la puntata che si è fatto ora di rientrare a scuola per i colloqui e la consegna dei pagellini. Gio, dal bagno, mi urla “Hai preso la merenda?” Rispondo un si per niente convincente mentre infilo la porta e mi fiondo giù per le scale, lei mi rincorre, insieme a Kita, tra le risate. Corro a scuola. Sono in ritardo. Di nuovo. Sto per girare nel parcheggio. Un vigile. Porc e mi mordo la lingua. Un corteo funebre blocca la strada. Decisamente un blue monday, per qualcun*. Mi infilo nel parcheggio, alcuni genitori si urlano addosso per un posto. Arrivo alla porta, finalmente qualcuno che la apre, mi precipito all’ascensore. Funziona! Prendo posto in aula e attendo i genitori. Esclusi quelli delle tre alunne che seguo, nessuno si ferma a parlare con me. Neanche si presentano. Tranne una mamma. Ci tiene moltissimo a conoscere la mia opinione su sua figlia. Torno a casa, sulle scale un profumo di origano, melanzane e bruschetta. Maya quasi mi salta in braccio, Kita vuole le coccole e Fate mi fa le fusa. Gio è ai fornelli che cucina per me. Mi avvicino, le sfioro la schiena, i nostri occhi si incontrano. Siamo fatte della stessa materia del blue monday. Siamo fatte di certezze, di cambiamenti e di nuovi inizi.

Moving girl.

“Trasloco: trasferimento di abitazione o di sede, e le operazioni con cui è compiuto. Il sostantivo è un derivato di traslocare, composto dal latino trans- ‘al di là, oltre‘ e locare ‘collocare, porre in un luogo’.”

Se traslocare fosse uno sport olimpico, io potrei gareggiare e arrivare addirittura a un bronzo. Negli ultimi 12 anni della mia vita ho fatto 16 traslochi. Un vero record per una persona pigra e timorosa dell’ignoto. Quindi immaginate la fatica: mentale, fisica e psicologica. Sopratutto psicologica. Perché traslocare implica una decisione. Cambiare casa, cambiare città, cambiare lavoro. Traslocare è cambiare. Cambiare idea, cambiare se stessi. E’ l’incognita del futuro nascosta sul fondo di ogni scatola, prima di essere riempita. Le scatole recuperate al supermercato, quelle che ancora profumano di melone, messe una sull’altra come una lasagna in un gioco di equilibri in cui tu perdi e le scatole finiscono per terra. Lo scotch avana, quello marrone, che puzza di colla. Che se lo sniffi troppo a lungo quasi ti sballi, manco fosse la nuova droga del millennio. E poi gli inventari, oh si, gli inventari. Con la mia cartellina fucsia, su fogli sparsi annotavo per ogni scatola il contenuto. La scritta “FRAGILE”, trasportare con cautela. Il tempo del primo trasloco. Poi butta tutto dentro e prega di non dimenticare niente.

16 traslochi, 7 valigie, 936 scatole, 2500 metri di nastro adesivo, 23 pennarelli neri, 1 inventario e svariati tentativi, 35 oggetti rotti, 17 oggetti smarriti, 8 vestiti ammuffiti dimenticati in fondo alla cantina, 2 scatole perse, 48 fumetti rovinati, 23 menù del mc Donald, 180 battiti al minuto, 2 cani, 1 cuscino, 1 vita. La mia.

Anno 2005. Il primo trasloco. Senza ombra di dubbio è stato uno dei più facili. Ho riempito 32 scatole e le ho spedite. Dalla Sardegna a Roma. Il secondo è stato un pochino più difficile: trasportare oltre trenta scatole da un capo all’altro della Città, servendosi dei mezzi pubblici, non è stata sicuramente una delle mie imprese più geniali. Sicuramente una delle più faticose, a tratti pure divertente (se ignoravo gli insulti degli avventori del 916). I successivi spostamenti sono stati noiosi.  Sino al 2008, l’anno del mio trasferimento in Piemonte. Nei quattro anni successivi ho cambiato due case e ho perso altri pezzetti di vita. Di dignità e di amor proprio. Tutti stipati sul fondo della scatola al profumo di melone. Ma il cambiamento è sempre in agguato. Anche quando non lo vuoi, anche quando pensi di non volerlo. Il 2014 è stato l’anno del trasloco più veloce di sempre, che Bolt sta ancora cercando di capire qual è il segnale di partenza. Una borsa, il mio cuscino e via. Sono stata un pò di tempo in albergo (li bastava una valigia, niente scatole); dieci giorni da una cara amica; un anno in una sperduta casetta in mezzo alle risaie.  Quello fu senza dubbio il trasloco più difficile nella storia dei miei traslochi. L’obiettivo era inscatolare due vite in dozzine di scatole, senza intralci. Senza rompersi le palle e senza perdere se stessi. Infine, un anno fa, LA SVOLTA. La mia prima casa. Mia e soltanto mia. Il mio primo trasloco 2.0, l’aria di cambiamento. Una svolta desiderata, cercata e trovata. Non subita, come le precedenti. Nella mia vita ho traslocato 16 volte. Nessuna mi ha mai resa felice come l’ultima. Per tutta la mia vita ho vissuto facendo ciò che la gente si aspettava che facessi. Ora, per la prima volta, voglio vivere come desidero. In attesa del prossimo trasloco.

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Un amore di nome Steve

Oggi mi sono innamorata, di nuovo. Un Amore con la A maiuscola, un Amore che solo quella cosa li riesce a darmi. Mi ero già innamorata in passato. Alcuni amori sono svaniti nel tempo, altri rimangono imperituri nel mio cuore e vengono costantemente nutriti con il sacro fuoco della passione. Ma oggi, il mio cuore ha prima mancato un battito, poi ha avuto un sussulto. Di nuovo ha perso un battito. Mi sono sentita quasi soffocare, il cuore incastrato in gola, tra le tonsille (che dovrei decidermi a togliere).

Steve, il suo nome.

Sebbene l’enorme differenza di età e la probabile incomprensione legata alla lingua (è nato il 24 febbraio del 1950 a Philadelphia), questo è VERO AMORE. Avevo già avuto occasione di conoscerlo quando studiavo a Roma ma, complici le mie passioni per altre tipologie di connessioni amorose e la mia spavalderia giovanile, Steve era finito nel dimenticatoio, in fondo a un cassetto, insieme al mio 25 dell’esame di fotografia. Come si suol dire, occhio non vede cuore non duole. Se non fosse che il destino, quel gran bastardo del destino, ci veda lungo. E trova sempre il modo per far si che tutto vada a compimento. Così, dopo otto anni da quel fatidico giorno, il destino ha fatto si che io incontrassi l’Amore. Io e Steve siamo profondamente diversi: lui è un genio della fotografia, io una poveraccia che fa foto ai fiori e ai cani con il telefonino; lui ha girato il mondo – il suo primo viaggio nel profondo Afghanistan, vestito di abito locali, con sé solo un coltellino svizzero e tantissima voglia di vivere – il mio viaggio più lungo (di sola andata) è stato in Piemonte; lui è avvolto dalla passione e dall’empatia per il mondo e l’umanità, io auguro le peggiori piaghe d’Egitto a chi mi taglia la strada in tangenziale; lui ha conosciuto persone, occhi verdi, cuori impavidi, io al massimo sopporto il mio gatto.

Insomma, io e Steve siamo profondamente diversi ma una cosa, importantissima, ci accomuna: l’Amore per la fotografia.

Mentre lui è protagonista e regista della storia e ferma istanti di vita su pellicola, io mi limito a osservarla da spettatrice, neanche in prima fila. Testimone della nascita di questo Amore la mia amica Anda che, in fondo in fondo, secondo me pure lei un pò si è innamorata. E come potrebbe essere altrimenti? Come si può resistere a questi immensi occhi azzurri, i baffetti da sparviero e la pelata luminosa?

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Irradia voglia di vivere, di sognare, di viaggiare. Di farsi prendere per mano e lasciarsi guidare attraverso i continenti, danzando tra le dune, svicolando fra i cammelli, lasciandosi avvolgere dall’umanità, dalla loro voglia di vivere. Lasciandosi alla spalle, ma portandosi appresso, la distruzione e la devastazione della natura e dell’uomo. Soprattutto dell’uomo. Quello che lui ama tanto ritrarre, nelle sue mille fotografie dai mille sorrisi e dai mille dolori. Danzare tra le culture, tra i colori, tra le usanze, aspirando e respirando a piene narici il profumo delle spezie, l’odore di sterco e la puzza di petrolio e di macerie. Sempre mantenendo il sorriso, la gioia di scoprire, la voglia di conoscere.

Due cose sono fondamentali nella vita: essere aperti e pronti, dice sempre Steve

Al cambiamento, agli imprevisti. Alla VITA. Senza mai esitare. Lasciando la paura da parte. Così nascono le migliori esperienze, i migliori momenti, le migliori fotografie. Così Steve mi fa sognare, tra oltre 250 fotografie scattate in trent’anni della sua carriera ( ve l’ho detto, no, che è un fotografo?), il tempo si ferma e ci siamo solo io, lui e la sua Arte. In mostra alla reggia di Venaria. Sino al 16 ottobre. Andateci. Innamoratevi anche voi di Steve. Lasciatevi avvolgere dalla sua fotografia e lasciate che la vostra anima bruci con il sacro fuoco della passione.

Benvenuta, signorina.

“Ascoltatemi un secondo…sentite questa!!! Ho letto su internet che c’è una “cosa” che ti infili in…dai, avete capito? E la usi durante…dai, avete capito, no?”

In realtà NO, Ada. Stiamo parlando di vagina, giusto?”

” Si esatto! Brava! E questa cosa qui è fatta tipo di plastica e la usi quando hai..beh, si, il ciclo!”

Ok, parliamo di mestruazioni. Siamo a tavola, tre amiche, pizza e risate. Sino alle lacrime.

Adalberta prende la confezione di filtrini,  la apre e la tiene fra le mani:“Ecco, Ada, la coppetta è più o meno così.  La pieghi come un origami e poi la infili nella bigioia.”

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Earth workshop – The Silueta Series Ana Mendieta 1973-1980

Bagiana, bigioia, uallera, vagiaina sono solo alcuni degli innumerevoli nomignoli per definire l’organo sessuale femminile.

Sveliamo il quattrordecimo segreto di Fatima: Continua a leggere

Spezzata, MAI.

Il maestrale arriva da nord-ovest, 120 km all’ora di forza invisibile. Arriva da nord, dal freddo e dal ghiaccio. Soffia inesorabile per giorni, trascina con se la sabbia, la noia e l’ansia. Soffia forte, il maestrale. Il maestro di vita corre veloce lungo la Sardegna. Spettina la brughiera e percorre le sue strade. Lungo la Panoramica, si muove veloce, curva dopo curva dopo curva. Vent’anni fa il maestrale era il terrore della strada. Vent’anni fa la Panoramica era una stradina sterrata di campagna, che univa la periferia del mio paese allo svincolo per i paesi vicini. Le pareti rocciose a strapiombo si contrapponevo alle colline frananti. Il maestrale correva così veloce da sollevare nubi di polvere secche talmente grandi da avvolgerti e lasciarti li, bloccato tra i tornanti.. Per diverso tempo la circolazione era consentita solo a senso unico alternato. Lasciandosi alle spalle il paese, sulla sinistra il sole si specchiava in una distesa d’acqua talmente grande che gli occhi non riuscivano a contenerla. La Panoramica è una strada che mi ha sempre inquietato. Da piccola, ogni tanto mia madre la utilizzava come scorciatoia. Sopra una panda verde bottiglia mezzo scassata, io e mio fratello seduti dietro, mia madre alla guida intonavamo “spunta la luna dal monte“. A ogni sobbalzo, il cuore mi finiva in gola. La voce incerta strozzava le parole delle strofe in sardo. Ma la gioia di quello specchio blu chetava la paura. Manca poco, pensavo. E poi arrivano loro.

La vastità del mare si contrapponeva alla brughiera, ricca di alberi simili ai lecci. Tutti in fila, piegati da anni e anni di maestrale. Chiedevo spesso a mia madre di fermarsi. Lei, seppur questo comportasse un ritardo considerevole sulla SUA tabella di marcia, acconsentiva la sosta. Lei raccoglieva more, io scrutavo gli alberi. Erano tutti li, in quell’ultima zona di terreno, circoscritti nel dolce abbraccio della curva. Tutti in fila, un poco distanti l’uno dall’altro. Piegati dalle infinite battaglie con il Maestrale. I loro rami non erano spogli. Carichi di foglie verdi, gialle, arancioni. Un colore per ogni stagione. Uno stemma per ogni battaglia.

Leccio Panoramica_Stef

Uno in particolare ha sempre attirato il mio interesse. In disparte rispetto agli altri, il tronco imponente piegato a virgola, la folta chioma rigogliosa. Come se ogni singola foglia raccontasse un pezzetto della sua storia. Da quando era solo un seme, a quando è divenuto un esile arbusto. Da quando ha messo su le prime foglie a quando le perse per il primo maestrale. Dopo vent’anni l’albero è ancora li. Piegato dal Maestrale. Qualche altro si è spezzato, o è stato abbattuto, nel corso degli anni. Ma lui è ancora li. Lui è un sopravvissuto. Piegato dalla vita, spezzato MAI.

La prossima estate.

Negli ultimi giorni, ho riflettuto parecchio sul senso dell’amicizia. Che la sottoscritta, su questo tema, faccia sempre un gran casino sembra essere una costante.

Oggi, nella mia testa, è suonato un allarme rosso.

Che sembrava più un pugno in pieno muso. Quei pugni che arrivano quando meno te l’aspetti, e sono carichi di ricordi, di rimorsi e di rimpianti. Hanno il sapore amaro di una vita di cui tu non fai parte. E di cui non potrai mai far più parte. Perché non c’è più spazio per te. Si può essere amici sui social network senza più avere contatti nella vita reale. Si pubblicano status o foto ignorando il disagio, per usare un eufemismo, che si potrebbe arrecare al prossimo. O forse si sa, ma non interessa. In fondo basta cliccare non seguire più oppure rimuovi dagli amici. Troppo difficile alzare la cornetta e parlare. Così ti ritrovi, sull’onda dei ricordi, a sistemare, finalmente, il contenuto del tuo hard disk. Tra le 18 nuova cartella, trovi nella nuova cartella (13) il tuo passato romano.

Tra le foto, i volti delle persone con cui ho convissuto e condiviso quattro anni della mia vita. Il nucleo originale era formato da quattro amici, a cui si aggiunsero altri due elementi. Gli anni romani, nonostante le difficoltà, sono stati i più intensi. Per la prima volta stavo bene in un contesto estremamente variegato e ricco di personalità. Dopo la laurea, negli anni successivi, gli “incidenti” della vita  hanno causato delle crepe all’interno del gruppo. Coppie che si lasciano, persone che si trasferiscono, persone che si sposano e persone che fanno coming out. Di quegli anni ricordo solo il mio lento scivolare nel grembo del mostro. Mi sono isolata, ho sbattuto porte, mi sono fatta negare. L’unica cosa che aveva una qualche importanza era la macchia di umidità sul mio soffitto, che osservavo ogni mattina invece di…beh, vivere. Quattro anni fa, a causa di uno sposalizio,  sembrava che il gruppo si potesse riformare. Così non è stato. Il resto del gruppo ci ha provato invece io ho riallacciato di nuovo i rapporti con il mio mostro. Talmente opprimente da farmi isolare di nuovo. E quelle persone, nel frattempo, si erano stufate di questa giostra. Forse sono entrate in ansia, o forse era semplicemente troppo per loro. Alcune persone semplicemente non ce la fanno. Del resto, ognuno di noi ha la propria vita, fatta di alti e bassi. E spesso manca il tempo materiale per dedicarsi a una persona che non fa nulla per rialzarsi. Ho tagliato i ponti, ho perso i contatti, ho ignorato i messaggi e sono affondata nell’oblio. Forse mi hanno teso la mano, quando ho invocato aiuto. Ma il dubbio che il mio grido non sia stato così forte da farsi sentire bussa ogni tanto.

Dopo due anni, ho provato a rientrare nelle loro vite ma, come dice una scaltra lupa di mia conoscenza, per ricucire i rapporti bisogna essere in due. Uno cuce i primi punti, l’altro prosegue. Quando i punti si allentano, bisogna essere subito pronti a rinforzarli. A volte manca l’ago, altre volte il filo non è del colore giusto, altre volte sai che barba il punto croce?

Oggi, mi rimane il ricordo di quegli anni meravigliosi. Delle risate, dei giri in motorino all’una di notte, delle monetine lanciate nella fontana di Trevi. Delle vacanze insieme. Della lacrime di tristezza e quelle di gioia, delle sedute collettive di silk epil, dello shopping, dei consigli di moda. Delle giornate interminabili a preparare esami, delle corse per la laurea.  Dei compleanni, dei natali. Dei gavettoni e delle estati.Degli abbracci e dei sorrisi. Quegli stessi sorrisi abbronzati raffigurati in un foto di cui tu non fai più parte.

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In attesa della prossima estate.

Tu non puoi permettertelo.

Ho cercato di ignorare le ultime dichiarazioni delle sedicenti “esperte” di moda di Vanity Fair e di Io donna. Ho cercato di ignorare le piccate risposte del web sull’ennesimo fenomeno di bodyshaming. Ho cercato di ignorare, per l’ennesima estate, le mie cosce, le mie ginocchia e i miei polpacci. Ho cercato di ignorare il caldo, di ignorare il sudore che scorre dalla testa ai piedi, ben coperta, onde evitare di “turbare” la società. Adesso ho ignorato i miei 130 kg e ho ignorato la vocina nella mia testa che cantilenava

“tu non puoi permettertelo.”

Ignorerò anche tutte le altri voci, tutti gli altri giudizi. Ignorerò qualsiasi offesa, qualsiasi bocca aperta solo per dare fiato ai denti. Ignorerò tutto. Perché, dopo aver passato 25 anni a nascondermi, a 30 ho deciso di venire allo scoperto. Se non ti piace, girati o tappati gli occhi. Io ignorerò la puzza della merda che mi lancerai addosso.

2016-07-22 19.32.30

L’algoritmo dell’amicizia

L’amicizia è sempre stato, per me, un argomento alquanto spinoso. Più dell’amore. L’amore è compensato dal sesso. Se qualche mattoncino del tuo jenga barcolla il sesso fa da contrappeso. Ti fa persino ignorare mille campanelli d’allarme. In amicizia no. Quando un mattoncino barcolla, inesorabilmente rischi di perdere la torre.

Mi chiedo spesso cosa sia l’amicizia, come deve essere un buon amico e, soprattutto, come sono io come amica. Ma sono troppo sociopatica per chiedere a chi mi è amico, o a chi lo è stato, di rispondere ai miei quesiti.

Pertanto la risposta è una sola: l’amicizia è un gran casino.

Nonostante io sia una psicopatica asociale affetta da agorafobia (cit.) e riduca al minimo il contatto umano, sono stata costretta dalle circostanze della vita a interagire con l’essere umano. Tre anni di asilo, cinque anni di elementari, tre di medie, cinque di superiori, quattro di università e altrettanti di specializzazione.

Ho avuto modo così di instaurare, mio malgrado, dei rapporti con un discreto numero di persone. E mi sono resa conto di avere un disperato bisogno di affetto e di contatto umano. Così ho cercato, con i miei modi goffi, di relazionarmi con “gli altri“. Con risultati discutibili.

la domanda che c’è alla base di un possibile rapporto è: come posso diventare su* amic*?

Prima del “come” definiamo il “quale“.

Quali e quanti sono le tipologie di “relazioni in amicizia“?  Esiste una “formula” per farsi degli amici? O rischi di entrare in un loop senza fine di tristezza? Continua a leggere