Si, viaggiare…

2016-07-25 17.22.25Viaggiare mi ha sempre spaventato. L’aspettativa, legata alla destinazione, non è mai riuscita a liberarmi dall’ansia del “durante”. Sicuramente non mi ha mai aiutato il senso di nausea, seguito dall’immancabile vomitino, che provavo su qualsiasi oggetto in movimento, persino l’altalena e il brucomela. Probabilmente ha aggravato la mia situazione la meta prescelta di 9 viaggi su 10.

Casa.

Quando sei una studentessa fuorisede, almeno due volte l’anno vi fai ritorno. I primi viaggi sono sempre i più lunghi. D’inverno 15 giorni, d’estate due mesi. Poi le “vacanze” si accorciano e le distanze aumentano. E quella che era la tua casa è sempre lei, ma non è più lei. In camera c’è sempre il tuo letto, con le lenzuola a fiori, i fumetti, i libri, i giochi. Ma tu non sei più tu. La tua altra casa è da un altra parte. E la malinconia di lasciarla, sommata all’ansia del viaggio, e alle aspettative dell’arrivo producono inesorabilmente un’enorme sboccata.

Oggi sono di nuovo in partenza. Lascio casa per andare a casa. Ma quello che lascio e quello che trovo si fondono in un ricordo dolceamaro che forse, FORSE, attenuerà la mia ansia di viaggiare.

Peccato che mi sono sfondata di sushi a pranzo.

 

 

La prossima estate.

Negli ultimi giorni, ho riflettuto parecchio sul senso dell’amicizia. Che la sottoscritta, su questo tema, faccia sempre un gran casino sembra essere una costante.

Oggi, nella mia testa, è suonato un allarme rosso.

Che sembrava più un pugno in pieno muso. Quei pugni che arrivano quando meno te l’aspetti, e sono carichi di ricordi, di rimorsi e di rimpianti. Hanno il sapore amaro di una vita di cui tu non fai parte. E di cui non potrai mai far più parte. Perché non c’è più spazio per te. Si può essere amici sui social network senza più avere contatti nella vita reale. Si pubblicano status o foto ignorando il disagio, per usare un eufemismo, che si potrebbe arrecare al prossimo. O forse si sa, ma non interessa. In fondo basta cliccare non seguire più oppure rimuovi dagli amici. Troppo difficile alzare la cornetta e parlare. Così ti ritrovi, sull’onda dei ricordi, a sistemare, finalmente, il contenuto del tuo hard disk. Tra le 18 nuova cartella, trovi nella nuova cartella (13) il tuo passato romano.

Tra le foto, i volti delle persone con cui ho convissuto e condiviso quattro anni della mia vita. Il nucleo originale era formato da quattro amici, a cui si aggiunsero altri due elementi. Gli anni romani, nonostante le difficoltà, sono stati i più intensi. Per la prima volta stavo bene in un contesto estremamente variegato e ricco di personalità. Dopo la laurea, negli anni successivi, gli “incidenti” della vita  hanno causato delle crepe all’interno del gruppo. Coppie che si lasciano, persone che si trasferiscono, persone che si sposano e persone che fanno coming out. Di quegli anni ricordo solo il mio lento scivolare nel grembo del mostro. Mi sono isolata, ho sbattuto porte, mi sono fatta negare. L’unica cosa che aveva una qualche importanza era la macchia di umidità sul mio soffitto, che osservavo ogni mattina invece di…beh, vivere. Quattro anni fa, a causa di uno sposalizio,  sembrava che il gruppo si potesse riformare. Così non è stato. Il resto del gruppo ci ha provato invece io ho riallacciato di nuovo i rapporti con il mio mostro. Talmente opprimente da farmi isolare di nuovo. E quelle persone, nel frattempo, si erano stufate di questa giostra. Forse sono entrate in ansia, o forse era semplicemente troppo per loro. Alcune persone semplicemente non ce la fanno. Del resto, ognuno di noi ha la propria vita, fatta di alti e bassi. E spesso manca il tempo materiale per dedicarsi a una persona che non fa nulla per rialzarsi. Ho tagliato i ponti, ho perso i contatti, ho ignorato i messaggi e sono affondata nell’oblio. Forse mi hanno teso la mano, quando ho invocato aiuto. Ma il dubbio che il mio grido non sia stato così forte da farsi sentire bussa ogni tanto.

Dopo due anni, ho provato a rientrare nelle loro vite ma, come dice una scaltra lupa di mia conoscenza, per ricucire i rapporti bisogna essere in due. Uno cuce i primi punti, l’altro prosegue. Quando i punti si allentano, bisogna essere subito pronti a rinforzarli. A volte manca l’ago, altre volte il filo non è del colore giusto, altre volte sai che barba il punto croce?

Oggi, mi rimane il ricordo di quegli anni meravigliosi. Delle risate, dei giri in motorino all’una di notte, delle monetine lanciate nella fontana di Trevi. Delle vacanze insieme. Della lacrime di tristezza e quelle di gioia, delle sedute collettive di silk epil, dello shopping, dei consigli di moda. Delle giornate interminabili a preparare esami, delle corse per la laurea.  Dei compleanni, dei natali. Dei gavettoni e delle estati.Degli abbracci e dei sorrisi. Quegli stessi sorrisi abbronzati raffigurati in un foto di cui tu non fai più parte.

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In attesa della prossima estate.

Tu non puoi permettertelo.

Ho cercato di ignorare le ultime dichiarazioni delle sedicenti “esperte” di moda di Vanity Fair e di Io donna. Ho cercato di ignorare le piccate risposte del web sull’ennesimo fenomeno di bodyshaming. Ho cercato di ignorare, per l’ennesima estate, le mie cosce, le mie ginocchia e i miei polpacci. Ho cercato di ignorare il caldo, di ignorare il sudore che scorre dalla testa ai piedi, ben coperta, onde evitare di “turbare” la società. Adesso ho ignorato i miei 130 kg e ho ignorato la vocina nella mia testa che cantilenava

“tu non puoi permettertelo.”

Ignorerò anche tutte le altri voci, tutti gli altri giudizi. Ignorerò qualsiasi offesa, qualsiasi bocca aperta solo per dare fiato ai denti. Ignorerò tutto. Perché, dopo aver passato 25 anni a nascondermi, a 30 ho deciso di venire allo scoperto. Se non ti piace, girati o tappati gli occhi. Io ignorerò la puzza della merda che mi lancerai addosso.

2016-07-22 19.32.30

L’algoritmo dell’amicizia

L’amicizia è sempre stato, per me, un argomento alquanto spinoso. Più dell’amore. L’amore è compensato dal sesso. Se qualche mattoncino del tuo jenga barcolla il sesso fa da contrappeso. Ti fa persino ignorare mille campanelli d’allarme. In amicizia no. Quando un mattoncino barcolla, inesorabilmente rischi di perdere la torre.

Mi chiedo spesso cosa sia l’amicizia, come deve essere un buon amico e, soprattutto, come sono io come amica. Ma sono troppo sociopatica per chiedere a chi mi è amico, o a chi lo è stato, di rispondere ai miei quesiti.

Pertanto la risposta è una sola: l’amicizia è un gran casino.

Nonostante io sia una psicopatica asociale affetta da agorafobia (cit.) e riduca al minimo il contatto umano, sono stata costretta dalle circostanze della vita a interagire con l’essere umano. Tre anni di asilo, cinque anni di elementari, tre di medie, cinque di superiori, quattro di università e altrettanti di specializzazione.

Ho avuto modo così di instaurare, mio malgrado, dei rapporti con un discreto numero di persone. E mi sono resa conto di avere un disperato bisogno di affetto e di contatto umano. Così ho cercato, con i miei modi goffi, di relazionarmi con “gli altri“. Con risultati discutibili.

la domanda che c’è alla base di un possibile rapporto è: come posso diventare su* amic*?

Prima del “come” definiamo il “quale“.

Quali e quanti sono le tipologie di “relazioni in amicizia“?  Esiste una “formula” per farsi degli amici? O rischi di entrare in un loop senza fine di tristezza? Continua a leggere

Troppa sbatta.

 

“Non ti vedi?”

“Dovresti amarti un pò di più”.

“Ti sei scofanata tutto e non mi hai lasciato niente!”

“Non dico tanto, ma un minimo di forza di volontà metticelo”

“Peccato, hai un viso così bello.”

“Mai provato la dieta del *inserire nome a caso”

“Dovresti optare per la chirurgia”.

Questa è una piccola selezione tra le frasi più carine che mi sono state dette negli ultimi 25 anni. E che tutt’oggi riescono a ferirmi come la prima volta. Quando sei una giovane trentenne, obesa, tatuata e coi capelli magenta qualche domanda le persone se la fanno.

Perchè è cosi grassa? Non riuscirà a tenere la bocca chiusa. Mangerà come un caminista. Sarà che non fa attività fisica. Andrà tutti i giorni da Mc donald’s.

I giudizi vengono elargiti come caramelle. Non sia mai che qualcuno si lasci sfuggire l’occasione di dire la sua.

Oggi, rientrando dalla Gam di Torino, un gruppetto imberbe di giovanotti ha pensato bene di etichettarmi con “è grande quanto un silos“.Che di per sé non trovo così offensivo. Soprattutto perché ho sempre trovato i silos delle costruzioni architettoniche molto interessanti. Immaginati in mezzo al far west più selvatico e vedi come lo benedici questo silos pieno d’acqua, giovine!

Lì per lì non ci avevo dato molto peso, se non che in tarda serata è arrivato il pezzo da novanta. Il piatto forte. La portata principale. Perchè si sa, l’angoscia arriva sempre in buona compagnia. Tristezza, delusione, sofferenza eccovi qua.E, chissà come mai, sempre a tavola. Durante i pasti. Pensa te che coincidenza.

Galeotta fu la patatina. Rodeo San Carlo. Che non è stata mangiata. Bensì catapultata nell’indifferenziato dopo averne mangiato metà pacchetto. Ma si sa, le persone grasse non hanno volontà.

Ma queste persone grasse chi sono? E perché sono cosi grasse?

Da una parte ci sei tu, DCA, e a destra ci sono gli altri. Continua a leggere

Verso le stelle.

“Mentre la mano indica,

la luce focalizza,

nella gravitazione universale si interferisce,

la terra si orienta,

le stelle si avvicinano di una spanna in più…”

(Giovanni Anselmo)

Due anni che non mettevo piede in un museo. Due fottutissimi lunghi anni. Ogni giorno c’era un problema: la bolletta da pagare, l’abbonamento musei scaduto, una casa da cercare, un lavoro da trovare. E nel frattempo i giorni sono passati. E sono diventati anni. E Chagall poteva tranquillamente essere una marca di cioccolatini. Pralinati, per l’esattezza. Buoni! E il periodo blu di Picasso poteva benissimo essere un momento “particolare” nella vita dell’uomo: a metà strada tra la prima polluzione notturna e la crisi di mezz’età.  Invece oggi, spinta da una mano – che pò esse fero o po esse piuma– di gentil ferro, ho attraversato mezza provincia. Direzione Castello di Rivoli. Non ero ancora nata quando al suo interno fu allestito, e inaugurato, il museo d’arte contemporanea d’Europa. Era il lontano 1984. E l’arte veniva apprezzata molto più di adesso. Oggi siamo talmente saturi di stimoli da non riuscire a vedere al di la dei nostri tablet. O dei nostri 32″. Invece li, mentre salivo la scalinata, contando mentalmente gli scalini, uno dopo l’altro mi sono ritrovata all’interno di un grembo materno fatto di colori, di gioia, di idee, di luce e di suoni.

Il grembo di Madre Arte che mi ha fatto piangere, mi ha fatto sudare, mi ha fatto ridere, mi ha fatto sognare. Mi ha fatto desiderare di essere una persona migliore. Una donna migliore. Un’artista migliore. Non che ci voglia tanto, dopo due anni di inattività. Ho già detto che sono due anni che non entro in un museo? Sono anche due anni che non dipingo. Ma questa è un altra storia.

Non conoscevo l’artista che esponeva nella  “manica lunga”: Giovanni Anselmo. Autodidatta e scultore. Giovanni ha allestito questa mostra personalmente. Ah già, è vivo. Quante volte capita nella vita di vedere delle mostre di artisti ancora in attività? Si da sempre per scontato che un artista diventa GRANDE dopo la sua dipartita, alla maniera di Van Gogh. Invece no. Ci sono persone, Artisti con la A maiuscola, in grassetto e sottolineata, che hanno la fortuna , o il talento, o l’audacia di vivere della loro arte e per la loro arte.

Giovanni Anselmo è uno di questi. E ci offre un’installazione in cui lo spettatore non è solo colui che guarda ma colui che partecipa. E che interagisce con l’opera. Lungo i 147 metri della manica lunga, Giovanni AnselmoGiovanni ci prende per mano e ci guida attraverso le stelle, attraverso il sole e la luce. E in questa luce lo spettatore vive l’opera di questo grande artista. Che mi ha fatto di nuovo battere il cuore. Che mi ha fatto diventare PARTICOLARE.