Once upon a time.

When you get older, plainer, saner
Will you remember all the danger
We came from?
Burning like embers, falling, tender
Longing for the days of no surrender
Years ago

You & me. No. Non sto parlando della tariffa di una nota compagnia di telefonia. Anche se, effettivamente, ha fatto da comunicazione per un lungo periodo.

Un sogno. Non ho mai avuto grossa fortuna con i sogni. Alle elementari sognavo di fare la fumettista, alle medie sognava di andare in america e di condurre studi sui nativi americani, alle superiori sognavo di fare l’archeologa. L’ultimo anno decisi che avrei fatto l’accademia delle belle arti. In fondo creare è sempre stata una delle mie più grandi passioni, ma mai avrei pensato che potesse diventare un mestiere così mi limitavo a nasconderlo in fondo a sogni disparati. Come spesso accade ai sogni, il mio è restato tale. Ma questa è un’altra storia.

Questa è la storia di un sogno, cercato, bramato, curato e cresciuto per vent’anni. Non è la mia storia ma è un capitolo di essa. Inizia come nelle fiabe.

C’era una volta una ragazza, coi capelli cortissimi, un sorriso sbilenco e tanta voglia di fare. Lei amava gli animali e loro amavano lei. Istinto animale, lo chiamano alcuni. La sua mamma, per prenderla in giro, le diceva “tra bestioline ci si intende” e le sorrideva. Ed era quello che accadeva, quando la ragazza varcava la soglia del canile in cui faceva volontariato e si rapportava con i cani. Tra loro bastava uno sguardo. Un legame indissolubile tra di loro. Negli anni successivi, dal canile passò alla toelettatura, passando per l’addetta  vendita in diversi pet shop. Fu talmente naturale che lei non si rese conto. Ma la magia, quella vera, si manifestò quando lei iniziò a prendersi cura dei cani. Anche se lei ancora non lo sapeva. Perché quella ragazza, che nel frattempo divenne una donna, con i capelli cortissimi ma brizzolati e con leggerissime rughe intorno al verde gentile dei suoi occhi, quando tre anni fa aprì il SUO negozio, l’ultima cosa a cui pensava era di fare la toelettatrice.

Voi mi direte : e cosa c’entra tutto questo? Abbiate pazienza e seguite il flusso del sogno.

Come ogni sogno che si rispetti, la fanciulla si avventurò alla ricerca del locale perfetto. Nella ricerca dei prodotti perfetti da inserirvi dentro. Nella ricerca della grafica perfetta che le creasse il logo perfetto per il suo negozio perfetto. Ma la guerriera dai capelli brizzolati non poteva sapere che quella sarebbe stata una delle più grandi ricerche che avrebbe dovuto affrontare. E una delle battaglie più dolorose. La grafica era una occhialuta e introversa “amica-da-parco”, conosciuta un’anno prima mentre era a passeggio con il suo cane. Ma anche questa è un’altra storia, non divaghiamo. Non era come talune principesse di fiabe antiche, non indossava pizzi e macramè ma felpe nere con teschi luccicanti. Non aveva vaporosi ricci ma un ciuffo selvaggio. Occhiali rossi, fossette che decoravano il suo sorriso e le ardeva dentro un fuoco che per troppo tempo era rimasto soffocato sotto una brace di rimpianti, rimorsi e vane speranze. Così iniziò la ricerca della guerriera.  Con una richiesta. Che celava un ‘emozione profonda e a lei sconosciuta. Che andava rincorsa, che spesso fuggiva e si nascondeva dentro gli scheletri del suo armadio. che a volte sfiorava con la punta delle mani ma con un guizzo scappava via. E più lei cercava e rimestava dentro di se e più a fondo andava. Sin quando la ragazza occhialuta presentò il suo lavoro.

Wishin’ I could see the machinations
Understand the toil of expectations
In your mind. 

Blue monday

Il lunedì è un giorno terribile. Pieno di contraddizioni e di rotture di maroni. Nonostante le innumerevoli leggende che si narrano sul blue monday, per me, è la certezza di un nuovo inizio. Qualunque esso sia. Scandisce l’andamento della settimana e del mio umore. Che in genere ha un bel incarnato ceruleo. Come le mie occhiaie. Le frasi motivazionali funzionano poco. Tollero a malapena “lavati la faccia e..sorridi!”. Sorridi a cosa? È lunedì. Ma, nella storia di questo giorno nefasto, alcune volte ti svegli e sai che sarà una giornata meravigliosa. E quella giornata entra nella storia dei “best day”.

Questa non è quella storia.

Cinque sveglie, posticipate l’una dall’altra ogni cinque minuti, impostate sul cellulare posizionato in fondo alla stanza. Tra lui e me un percorso fatto ad ostacoli per raggiungerlo. O mi sveglio, o muoio provandoci. Il mio istinto di sopravvivenza è molto forte. Maya, ostacolo numero due, sa bene di che parlo. Si infila velocemente sotto il letto prima di finire spazzata via. Lo zaino di Gio prova a farmi incespicare,  soffoco un porc mentre lei russa nel mio meraviglioso lettone a due piazze, fresco di bucato; raggiungo il telefonino stacco la terza sveglia sbatto la testa sulla lampada (che ci fa orientata sulla scrivania invece che sul tavolino?) completo l’imprecazione e sbatto il ginocchio sulla sedia.

Benvenuto lunedì.

Respira e massaggia la testa.  Raggiungo la porta, giro la maniglia ed eccolo li, il terzo ostacolo in tutta la sua malvagità  e la sua oscurità. Una pallottola nera schizza sulle mie caviglie, sento solo “purrrrrr” mentre pasticcio con la moka. Caffè, vi prego. Sento Kita che inizia ad uggiolare. Ķkķkkkkiiiiiittttttaaaaaahhhhhhhhh, urlo nella mia testa; dalla mia bocca sputo un suono incomprensibile di cervo muschiato  in primavera. Lei si cheta, la caffetteria sbuffa,  finalmente. Fate mi fa cascare la tazzina dalle mani, dopo un triplo salto acrobatico sul runner della cucina. Schivo il caffè, maledicendo il Fato e i suoi messaggeri demoniaci in corpo di gatto. Butto giù i residui di caffè e schizzo a vestirmi talmente veloce che Clark Kent sta ancora cercando di capire perché ha abbinato lo slippino rosso con la calzamaglia azzurra. Lo specchio mi restituisce l’immagine di Kung Fu panda. Non c’è verso di stendere l’eyeliner. I complottisti penserebbero a un piano malvagio delle aziende cosmetiche capeggiato da Clio Make up. Migliaia di soldi spesi in prodotti concepiti per l’asimmetria. Borsa, occhiali, chiavi, porta. A sbarrare la mia strada il Fato. Fa le fusa. Mi guarda. NON.DEVO.FERMARMI.

FATE

Salgo in macchina, mi separano dal ritardo 60 secondi. Raggiungo scuola, i miei colleghi sono molto bravi nel loro lavoro ma fanno schifo a parcheggiare. Soffoco l’ennesimo porc . Ho smesso di contarli. Suono il campanello, non arriva nessuno. Un bimbo delle elementari, impietosito, apre la porta e mi fa entrare. Corro verso l’ascensore,  fuori servizio. Arranco sui due piani di scale, sento nella bocca sapore di sangue, sto per avere un infarto. Se non muoio qui e ora giuro che da lunedì mi metto a dieta. Arrivo in classe, la collega è più in ritardo di me.

Evvai, prof. Cicciona di sostegno 1 – insegnante di matematica 0.

Saluto i ragazz*, faccio l’appello,  mi sorridono. Forse questo lunedì non fa poi così schifo. Non giudichiamo male un lunedì da un risveglio burrascoso. Ne ho avuti tanti così. Arriva la collega, esco dalla classe con due alunne e andiamo in un’aula vuota. Apriamo il libro, parliamo di frazioni.  Inizio a interrogare.  Dal corridoio una mandria imbufalita si avvicina,  sento prima le risate poi gli stridii delle converse che derapano sulle piastrelle. Ci spostiamo nell’aula dell’aiutino, arriva la collega con un’altra alunna, ci spostiamo di nuovo e cerchiamo i primi dieci centimetri di spazio privi di disturbo. Che la ricerca del Santo Graal era meno difficile. Le fanciulle non hanno fatto i compiti, è lunedì anche per loro. Cerco di contenere i porc, finisco le mie ore, le affido alla mia collega e vado da un’altra alunna. Lei è la mia gioia e il mio dolore. Da quando lavoriamo insieme, la mia autostima è schizzata alla stelle. “Sei bella”, e mi sorride. Le mie occhiaie quasi spariscono. Poi lancia un urlo e la magia finisce. O forse comincia. Suona la campana della quinta ora, mi fiondo giù per la scale e mi precipito a casa.  Fate mi ignora, Maya pure. Kita uggiola dalla camera d letto. Entro in cucina, Gio sta preparando il pranzo. Le sfioro la schiena, mi sorride. Quando ho smesso di specchiarmi nei suoi occhi? Le nostre labbra si sfiorano appena. Un gesto quasi meccanico. Pranzo velocemente e mi spalmo sul divano. Richard torna a casa da Adele, Alex lascia Ava, George bacia Lexy e finalmente Meredith si affida a Derek. Sarà la volta buona? Non finisco di vedere la puntata che si è fatto ora di rientrare a scuola per i colloqui e la consegna dei pagellini. Gio, dal bagno, mi urla “Hai preso la merenda?” Rispondo un si per niente convincente mentre infilo la porta e mi fiondo giù per le scale, lei mi rincorre, insieme a Kita, tra le risate. Corro a scuola. Sono in ritardo. Di nuovo. Sto per girare nel parcheggio. Un vigile. Porc e mi mordo la lingua. Un corteo funebre blocca la strada. Decisamente un blue monday, per qualcun*. Mi infilo nel parcheggio, alcuni genitori si urlano addosso per un posto. Arrivo alla porta, finalmente qualcuno che la apre, mi precipito all’ascensore. Funziona! Prendo posto in aula e attendo i genitori. Esclusi quelli delle tre alunne che seguo, nessuno si ferma a parlare con me. Neanche si presentano. Tranne una mamma. Ci tiene moltissimo a conoscere la mia opinione su sua figlia. Torno a casa, sulle scale un profumo di origano, melanzane e bruschetta. Maya quasi mi salta in braccio, Kita vuole le coccole e Fate mi fa le fusa. Gio è ai fornelli che cucina per me. Mi avvicino, le sfioro la schiena, i nostri occhi si incontrano. Siamo fatte della stessa materia del blue monday. Siamo fatte di certezze, di cambiamenti e di nuovi inizi.

Moving girl.

“Trasloco: trasferimento di abitazione o di sede, e le operazioni con cui è compiuto. Il sostantivo è un derivato di traslocare, composto dal latino trans- ‘al di là, oltre‘ e locare ‘collocare, porre in un luogo’.”

Se traslocare fosse uno sport olimpico, io potrei gareggiare e arrivare addirittura a un bronzo. Negli ultimi 12 anni della mia vita ho fatto 16 traslochi. Un vero record per una persona pigra e timorosa dell’ignoto. Quindi immaginate la fatica: mentale, fisica e psicologica. Sopratutto psicologica. Perché traslocare implica una decisione. Cambiare casa, cambiare città, cambiare lavoro. Traslocare è cambiare. Cambiare idea, cambiare se stessi. E’ l’incognita del futuro nascosta sul fondo di ogni scatola, prima di essere riempita. Le scatole recuperate al supermercato, quelle che ancora profumano di melone, messe una sull’altra come una lasagna in un gioco di equilibri in cui tu perdi e le scatole finiscono per terra. Lo scotch avana, quello marrone, che puzza di colla. Che se lo sniffi troppo a lungo quasi ti sballi, manco fosse la nuova droga del millennio. E poi gli inventari, oh si, gli inventari. Con la mia cartellina fucsia, su fogli sparsi annotavo per ogni scatola il contenuto. La scritta “FRAGILE”, trasportare con cautela. Il tempo del primo trasloco. Poi butta tutto dentro e prega di non dimenticare niente.

16 traslochi, 7 valigie, 936 scatole, 2500 metri di nastro adesivo, 23 pennarelli neri, 1 inventario e svariati tentativi, 35 oggetti rotti, 17 oggetti smarriti, 8 vestiti ammuffiti dimenticati in fondo alla cantina, 2 scatole perse, 48 fumetti rovinati, 23 menù del mc Donald, 180 battiti al minuto, 2 cani, 1 cuscino, 1 vita. La mia.

Anno 2005. Il primo trasloco. Senza ombra di dubbio è stato uno dei più facili. Ho riempito 32 scatole e le ho spedite. Dalla Sardegna a Roma. Il secondo è stato un pochino più difficile: trasportare oltre trenta scatole da un capo all’altro della Città, servendosi dei mezzi pubblici, non è stata sicuramente una delle mie imprese più geniali. Sicuramente una delle più faticose, a tratti pure divertente (se ignoravo gli insulti degli avventori del 916). I successivi spostamenti sono stati noiosi.  Sino al 2008, l’anno del mio trasferimento in Piemonte. Nei quattro anni successivi ho cambiato due case e ho perso altri pezzetti di vita. Di dignità e di amor proprio. Tutti stipati sul fondo della scatola al profumo di melone. Ma il cambiamento è sempre in agguato. Anche quando non lo vuoi, anche quando pensi di non volerlo. Il 2014 è stato l’anno del trasloco più veloce di sempre, che Bolt sta ancora cercando di capire qual è il segnale di partenza. Una borsa, il mio cuscino e via. Sono stata un pò di tempo in albergo (li bastava una valigia, niente scatole); dieci giorni da una cara amica; un anno in una sperduta casetta in mezzo alle risaie.  Quello fu senza dubbio il trasloco più difficile nella storia dei miei traslochi. L’obiettivo era inscatolare due vite in dozzine di scatole, senza intralci. Senza rompersi le palle e senza perdere se stessi. Infine, un anno fa, LA SVOLTA. La mia prima casa. Mia e soltanto mia. Il mio primo trasloco 2.0, l’aria di cambiamento. Una svolta desiderata, cercata e trovata. Non subita, come le precedenti. Nella mia vita ho traslocato 16 volte. Nessuna mi ha mai resa felice come l’ultima. Per tutta la mia vita ho vissuto facendo ciò che la gente si aspettava che facessi. Ora, per la prima volta, voglio vivere come desidero. In attesa del prossimo trasloco.

scatole-di-cartone

A volte ritornano.

Sono cinque mesi che non scrivo. Vorrei poter dire “sono cinque mesi che non pubblico sul blog ma, in questo tempo, ho scritto miliardi di articoli, cinque racconti brevi e un romanzo e che sono pronta a cavalcare di nuovo le onde del world wide web e a iniziare il mio tour promozionale in giro per l’Italia“. Ma sarebbe una menzogna. Perché in questi cinque mesi ho giusto scribacchiato e mi sono crogiolata nella (falsa) convinzione che di questo blog non frega nulla a nessuno. In primis a me stessa. Potrei dire che in questi cinque mesi ho avuto tantissime cose da fare: ho imparato una nuova lingua, ho scoperto la bellezza della cultura maori, ho salvato un delfino spiaggiato. Sarei una mentirosa. Perché…si, in questi cinque mesi, ho fatto tante cose. Ho persino perso la password di accesso al blog. Un segno del destino, dicono. Un chiaro sintomo di Alzheimer precoce, rispondo. Visto che uso la stessa identica password dal 2010.(No, non è la mia data di nascita).

La verità, nuda e cruda, è che ho perso la voglia di scrivere.

Perché, sin quando i pensieri rimangono inafferrabili, nessuno può leggerli. Nessuno può giudicarti. Nessuno può usarli contro di te. E, se da una parte, il mio narcisistico desiderio di “popolarità”(leggetemi vi prego, ditemi quanto sono brava e bella e profonda oh ma come scrivo bene ecco il mio autografo) mi spingeva inizialmente a mettere nero su bianco i miei pensieri, dall’altra parte la paura che non fregasse un cavolo a nessuno si faceva sempre più presente. Fin quando è diventata talmente grande da schiacciare la piccolissima parte di me che aveva voglia di scrivere. Così, in questi cinque mesi di dolce far tutto e far niente, i miei pensieri si sono ingarbugliati e accavallati. L’onda delle parole si è ingrandita col trascorrere dei giorni. Prima era delicata, mi “disturbava” mentre facevo colazione o ero a passeggio coi cani. Ora riempie completamente la mia testa. Quando sono a lezione, quando esco con le amiche, quando faccio la pipì. Ho letto diversi articoli sul come fare blogging. Il più disarmante diceva che 9 blog su 10 chiudono i battenti nel primo anno di vita.Considerando che io ho perso cinque mesi a smacchiar giaguari direi che sono sulla strada giusta per la chiusura. E allora ho finalmente capito perché ho deciso di scrivere questo blog: per raccontare una storia. La mia storia. Vorrei poter scrivere che poco importa se nessuno la legge ma verrei meno alla mia natura narcisistica. E direi di nuovo una bugia.

Ma una cosa posso dirla:scrivo affinché io stessa possa leggere. Scrivo per il puro piacere di scrivere; per il brivido che corre lungo la schiena quando rendi tangibili i  pensieri. E, chissà, magari qualcuno avrà il piacere di leggerli. E sentirà lo stesso brivido.

me_writing

Un amore di nome Steve

Oggi mi sono innamorata, di nuovo. Un Amore con la A maiuscola, un Amore che solo quella cosa li riesce a darmi. Mi ero già innamorata in passato. Alcuni amori sono svaniti nel tempo, altri rimangono imperituri nel mio cuore e vengono costantemente nutriti con il sacro fuoco della passione. Ma oggi, il mio cuore ha prima mancato un battito, poi ha avuto un sussulto. Di nuovo ha perso un battito. Mi sono sentita quasi soffocare, il cuore incastrato in gola, tra le tonsille (che dovrei decidermi a togliere).

Steve, il suo nome.

Sebbene l’enorme differenza di età e la probabile incomprensione legata alla lingua (è nato il 24 febbraio del 1950 a Philadelphia), questo è VERO AMORE. Avevo già avuto occasione di conoscerlo quando studiavo a Roma ma, complici le mie passioni per altre tipologie di connessioni amorose e la mia spavalderia giovanile, Steve era finito nel dimenticatoio, in fondo a un cassetto, insieme al mio 25 dell’esame di fotografia. Come si suol dire, occhio non vede cuore non duole. Se non fosse che il destino, quel gran bastardo del destino, ci veda lungo. E trova sempre il modo per far si che tutto vada a compimento. Così, dopo otto anni da quel fatidico giorno, il destino ha fatto si che io incontrassi l’Amore. Io e Steve siamo profondamente diversi: lui è un genio della fotografia, io una poveraccia che fa foto ai fiori e ai cani con il telefonino; lui ha girato il mondo – il suo primo viaggio nel profondo Afghanistan, vestito di abito locali, con sé solo un coltellino svizzero e tantissima voglia di vivere – il mio viaggio più lungo (di sola andata) è stato in Piemonte; lui è avvolto dalla passione e dall’empatia per il mondo e l’umanità, io auguro le peggiori piaghe d’Egitto a chi mi taglia la strada in tangenziale; lui ha conosciuto persone, occhi verdi, cuori impavidi, io al massimo sopporto il mio gatto.

Insomma, io e Steve siamo profondamente diversi ma una cosa, importantissima, ci accomuna: l’Amore per la fotografia.

Mentre lui è protagonista e regista della storia e ferma istanti di vita su pellicola, io mi limito a osservarla da spettatrice, neanche in prima fila. Testimone della nascita di questo Amore la mia amica Anda che, in fondo in fondo, secondo me pure lei un pò si è innamorata. E come potrebbe essere altrimenti? Come si può resistere a questi immensi occhi azzurri, i baffetti da sparviero e la pelata luminosa?

IMG_5550

Irradia voglia di vivere, di sognare, di viaggiare. Di farsi prendere per mano e lasciarsi guidare attraverso i continenti, danzando tra le dune, svicolando fra i cammelli, lasciandosi avvolgere dall’umanità, dalla loro voglia di vivere. Lasciandosi alla spalle, ma portandosi appresso, la distruzione e la devastazione della natura e dell’uomo. Soprattutto dell’uomo. Quello che lui ama tanto ritrarre, nelle sue mille fotografie dai mille sorrisi e dai mille dolori. Danzare tra le culture, tra i colori, tra le usanze, aspirando e respirando a piene narici il profumo delle spezie, l’odore di sterco e la puzza di petrolio e di macerie. Sempre mantenendo il sorriso, la gioia di scoprire, la voglia di conoscere.

Due cose sono fondamentali nella vita: essere aperti e pronti, dice sempre Steve

Al cambiamento, agli imprevisti. Alla VITA. Senza mai esitare. Lasciando la paura da parte. Così nascono le migliori esperienze, i migliori momenti, le migliori fotografie. Così Steve mi fa sognare, tra oltre 250 fotografie scattate in trent’anni della sua carriera ( ve l’ho detto, no, che è un fotografo?), il tempo si ferma e ci siamo solo io, lui e la sua Arte. In mostra alla reggia di Venaria. Sino al 16 ottobre. Andateci. Innamoratevi anche voi di Steve. Lasciatevi avvolgere dalla sua fotografia e lasciate che la vostra anima bruci con il sacro fuoco della passione.

Benvenuta, signorina.

“Ascoltatemi un secondo…sentite questa!!! Ho letto su internet che c’è una “cosa” che ti infili in…dai, avete capito? E la usi durante…dai, avete capito, no?”

In realtà NO, Ada. Stiamo parlando di vagina, giusto?”

” Si esatto! Brava! E questa cosa qui è fatta tipo di plastica e la usi quando hai..beh, si, il ciclo!”

Ok, parliamo di mestruazioni. Siamo a tavola, tre amiche, pizza e risate. Sino alle lacrime.

Adalberta prende la confezione di filtrini,  la apre e la tiene fra le mani:“Ecco, Ada, la coppetta è più o meno così.  La pieghi come un origami e poi la infili nella bigioia.”

ana-mendieta-earth-work-2
Earth workshop – The Silueta Series Ana Mendieta 1973-1980

Bagiana, bigioia, uallera, vagiaina sono solo alcuni degli innumerevoli nomignoli per definire l’organo sessuale femminile.

Sveliamo il quattrordecimo segreto di Fatima: Continua a leggere

10 MOTIVI PER CUI ODIO IL DENTISTA

Dentino.jpg
1) Parliamo di dentista. Non è abbastanza? Va bene, allora continuiamo.

2) Andare dal dentista implica fare la detartrasi. Scongiurando il pericolo carie, la detartrasi è una procedura di routine, consigliabile una o due volte all’anno. Per chi non sapesse cosa sia, tale pratica consiste in un piccolo trapano lucido che, costante, trapana sui denti. Che il martello pneumatico con cui sistemano le strade gli fa una pippa, al confronto. Il dolore può essere variabile. In genere più chilometri di filo interdentale usi, meno male dovresti sentire. Se non fosse che eccolo li, propri li, dietro l’ultima tonsille, poi a destra fino al mattino l’ultimo pezzettino di tartaro ecco fatto! e tu stai invocando un dio in cui non credi e un animale che non mangi affinché la torturatrice finisca il suo lavoro.

3) Il cazzilo assorbi saliva. Nome tecnico per definire un tubo di plastica ritorno, ancorato sulla tua bocca e pronto per dilatarti la faccia. Nel frattempo, tutta la saliva che riesci a produrre in una seduta (ed è tantissima!) ti cola lungo la guance, sul mento, sul collo. E si deposita su quel vestito tanto carino che ti eri messa per la prima volta  la mattina. Sei un’ingenua! Davvero pensavi che non saresti sembrata la cugina di un bulldog inglese?

4) Gli occhiali ingrandenti SUPREMI. Non è importante quanto bene ti sia depilata la faccia. Loro vedono TUTTO. E, badate bene, io sono per l’assoluta libertà di scegliere se e cosa e quanto e quando depilarsi. Ma questo poco importa quando QUEGLI OCCHIALI riescono a vedere tutti i tuoi punti neri, i tuoi peli, le tue tonsille.

5) La lampada sopra la testa. Pensionata dagli interrogatori polizieschi, dopo aver fallito i provini alla Pixar, si diletta a inquietare gli avventori della poltrona. Confessa, hai spazzolato i denti prima di andare a letto? Nota a margine: per chi, come me, propende verso la pareidolia sembrava un alieno: faccione quadrato, due corna ai lati, tre occhi frontali e due bocche.

6) La poltrona. Quanto odio la poltrona. Troppo alta, troppo bassa. Va bene così? No aspetti che le sollevo la testiera.Troppo alta Troppo bassa? Attenzione che ora saliamo su (verso la lampada aliena) e poi giu. Che mi sembra di essere nel video di Giorgia. Esclusa la seduta seducente col dentista.

7) Il dentifricio. Una volta finito di scolpirti il David nel tartaro, si passa allo spazzolino rotante con il dentifricio. Che è ABRASIVO. E sa di gomma masticata. Devo aggiungere altro? Ah si. Il collutorio. Si sciacqui prego. Stessa fragranza del dentifricio. Che non sia mai che poi esci d ali con l’alito che profuma di freschezza alpina.

8) Il dentista che vuole fare conversazione MENTRE lavora sui tuoi denti. Che ti chiede com’è la tua igiene orale e tu riesci solo a rispondere FFFFFFIHNOOOOOORRRRRFFFFFFFFLLLLLLOOOOZZZZZLLLLINNNO. E poi sorride. SEMPRE. Una meravigliosa falce di luna gli illumina il viso. Trentasei perle candida e perfette si incastonano sulle sue gengive. Che cazzo c’hai da sorridere?!

9) Le raccomandazioni. Mi raccomando prima filo, poi spazzolino, poi collutorio poi lampada a UV poi una gita a Lourdes e FORSE fra sei mesi, quando ci rivediamo (perché è obbligatorio!), non le farà così male.

10) La parcella. Zero tartaro sui denti, zero soldi nel portafoglio. E tu rimani li, nel tuo angolino,  a rimpiangere il meraviglioso David di tartaro.

 

 

Time out.

Un mese esatto che non scrivo. Settembre,  per me, è sempre stato il lunedì dell’anno. L’estate volge al termine, arrivano i primi acquazzoni, le foglie ingialliscono, le scuole riaprono. Settembre non mi ha mai fatto paura. Tranne quest’anno. Insieme ai primi cristoni settembrini sono arrivate: Consapevolezza e Ansia. Con Ansia siamo amiche sin dall’infanzia. Io e Consapevolezza abbiamo un rapporto di amore e odio. So che devo fare delle cose, un obbligo, anche se non vorrei farle. Dopo un anno disastroso, settembre è il mese di Consapevolezza. Io e lei ci guarderemo negli occhi, ci sfioreremo le dita, ci insulteremo ma insieme faremo delle “cose” non meglio definite. Consapevolezza si è coalizzata con Responsabilità; vuole che io riprenda in mano un antico percorso interiore. Sono d’accordo con loro, anche se non lo ammetterò mai. In questo ultimo anno ho trattato molto male Consapevolezza. E lei si è risentita. Quindi adesso mi tocca assecondarla.  Se anche non lo facessi lei inizierebbe a ronzarmi intorno, come quei tafani del vercellese che mi perseguitano quando porto fuori i cani. Così lo faccio. Deciso. Contatto una persona fuori dal mio kenne,  la mia confort zone, e decidiamo di vederci. A Vercelli. Che significa prendere il treno, insieme a Consapevolezza e Ansia, arrivare in una città che non si conosce e intrattenere rapporti sociali. Trovare argomenti in comune, non sembrare scema, non confermare che sei una disadattata sociale e reggere il peso della pressione sociale. Altro che fertility day! Manco riesco a parlare con una persona, figuriamoci figliarci insieme.

Ansia ha promesso che non mi farà fare brutte figure. In caso contrario posso sempre fingere un mal de panza e fuggire via. Se non fosse che il mio senso dell’orientamento è quello di una pietra lanciata in mezzo all’oceano. Che è un po’ la sensazione che mi ha pervasa per tutto il pomeriggio,  anche ora che sono sulla strada di ritorno verso casa. Su un altro treno. Io ho bisogno di tempo. Ansia ha bisogno di tempo. Responsabilità ha bisogno di tempo. Il tempo ha bisogno di tempo. Cosafare nel frattempo? Oggi ho comprato un libro. Forse non sono così arrugginita. Anche se ho bisogno di….beh, tempo.

 

Spezzata, MAI.

Il maestrale arriva da nord-ovest, 120 km all’ora di forza invisibile. Arriva da nord, dal freddo e dal ghiaccio. Soffia inesorabile per giorni, trascina con se la sabbia, la noia e l’ansia. Soffia forte, il maestrale. Il maestro di vita corre veloce lungo la Sardegna. Spettina la brughiera e percorre le sue strade. Lungo la Panoramica, si muove veloce, curva dopo curva dopo curva. Vent’anni fa il maestrale era il terrore della strada. Vent’anni fa la Panoramica era una stradina sterrata di campagna, che univa la periferia del mio paese allo svincolo per i paesi vicini. Le pareti rocciose a strapiombo si contrapponevo alle colline frananti. Il maestrale correva così veloce da sollevare nubi di polvere secche talmente grandi da avvolgerti e lasciarti li, bloccato tra i tornanti.. Per diverso tempo la circolazione era consentita solo a senso unico alternato. Lasciandosi alle spalle il paese, sulla sinistra il sole si specchiava in una distesa d’acqua talmente grande che gli occhi non riuscivano a contenerla. La Panoramica è una strada che mi ha sempre inquietato. Da piccola, ogni tanto mia madre la utilizzava come scorciatoia. Sopra una panda verde bottiglia mezzo scassata, io e mio fratello seduti dietro, mia madre alla guida intonavamo “spunta la luna dal monte“. A ogni sobbalzo, il cuore mi finiva in gola. La voce incerta strozzava le parole delle strofe in sardo. Ma la gioia di quello specchio blu chetava la paura. Manca poco, pensavo. E poi arrivano loro.

La vastità del mare si contrapponeva alla brughiera, ricca di alberi simili ai lecci. Tutti in fila, piegati da anni e anni di maestrale. Chiedevo spesso a mia madre di fermarsi. Lei, seppur questo comportasse un ritardo considerevole sulla SUA tabella di marcia, acconsentiva la sosta. Lei raccoglieva more, io scrutavo gli alberi. Erano tutti li, in quell’ultima zona di terreno, circoscritti nel dolce abbraccio della curva. Tutti in fila, un poco distanti l’uno dall’altro. Piegati dalle infinite battaglie con il Maestrale. I loro rami non erano spogli. Carichi di foglie verdi, gialle, arancioni. Un colore per ogni stagione. Uno stemma per ogni battaglia.

Leccio Panoramica_Stef

Uno in particolare ha sempre attirato il mio interesse. In disparte rispetto agli altri, il tronco imponente piegato a virgola, la folta chioma rigogliosa. Come se ogni singola foglia raccontasse un pezzetto della sua storia. Da quando era solo un seme, a quando è divenuto un esile arbusto. Da quando ha messo su le prime foglie a quando le perse per il primo maestrale. Dopo vent’anni l’albero è ancora li. Piegato dal Maestrale. Qualche altro si è spezzato, o è stato abbattuto, nel corso degli anni. Ma lui è ancora li. Lui è un sopravvissuto. Piegato dalla vita, spezzato MAI.